Accessibilità, videogiochi e prospettive diverse.
In conversazione con Silvio Binca, ideatore del primo videogioco con protagonisti in sedia a rotelle.
Silvio Binca, classe 1999, è il fondatore dell’associazione ThehandYcapped, nata dal desiderio di trasformare una sfida personale in un progetto collettivo. Convive con la desminopatia, una rara malattia genetica, che lo costringe a vivere con un respiratore e a muoversi in sedia a rotelle. Ma non si è mai fermato. Ha creato il primo videogioco in cui i protagonisti sono in sedia a rotelle, e attraverso le sue iniziative porta avanti un messaggio chiaro: la disabilità non è un limite, ma un altro punto di vista.
Ne abbiamo parlato direttamente con lui.

The handYcapped è stato tra i protagonisti di IF2025. Com’è nato il progetto? C’è stato un momento preciso che ti ha fatto capire che era arrivato il momento di trasformare la tua disabilità in progetto collettivo?
The handYcapped è nato da una cosa molto semplice: la voglia di trasformare qualcosa di pesante in qualcosa di utile.
A un certo punto ho capito che non potevo cambiare la mia situazione, ma potevo cambiare il modo in cui la vivevo e magari aiutare anche gli altri a guardarla con occhi diversi.
È iniziato tutto quasi per gioco, con un’idea, poi è diventato un progetto collettivo che oggi unisce tante persone con storie diverse ma lo stesso obiettivo: normalizzare la disabilità senza farne un dramma.
Cosa ci dici dei fruitori e fruitrici del videogioco? Quali sono le reazioni e i commenti che raccogli più frequentemente?
La cosa più bella è vedere la sorpresa.
All’inizio molti pensano sia “solo un gioco con persone in sedia a rotelle”, poi capiscono che è un’esperienza che ti fa ridere, ma anche riflettere.
Le reazioni più comuni sono “non ci avevo mai pensato” oppure “è divertente ma fa pensare”. Una delle reazioni che mi è rimasta in mente è stata quella di un bambino che ha detto che avrebbe chiesto a Babbo Natale di portargli questo videogioco. Ecco, se anche una persona su dieci esce dal gioco con uno sguardo un po’ diverso sulla disabilità, allora abbiamo vinto.

Nel tuo progetto racconti la disabilità “senza filtri” e con ironia. Un approccio diverso rispetto alla narrazione dominante della disabilità, spesso ancora pietistica o eroica. Secondo te, come dovrebbe cambiare il modo di raccontare le disabilità? Quali sono i pregiudizi e gli stereotipi – spesso inconsapevoli – più frequenti tra le persone senza disabilità?
Bisognerebbe iniziare a raccontarla come una parte della normalità, non come un’eccezione.
Siamo stufi dei due estremi: o il disabile eroe che “non si arrende mai”, o quello da compatire. La verità è che in mezzo c’è la vita di tutti i giorni, fatta di momenti belli, momenti di m***a, risate e fatica, come per chiunque.
I pregiudizi più comuni? Che siamo tristi, arrabbiati o “poverini”. In realtà spesso siamo noi (o almeno io) quelli che prendono la vita con più ironia.

The handYcapped dimostra che il limite non è nella disabilità, ma in un sistema che non predispone gli strumenti e le condizioni per un’accessibilità a 360gradi, per tutte e tutti. Per te, quali sono le sfide ancora da affrontare per garantire un’accessibilità reale nel mondo dei videogiochi?
La sfida più grande è pensare l’accessibilità prima, non dopo.
Spesso i videogiochi vengono fatti e poi “adattati” per chi ha disabilità, ma è un po’ come costruire una casa e solo alla fine chiedersi se entra una sedia a rotelle.
Servono più sviluppatori sensibili al tema, più collaborazione con chi vive davvero queste difficoltà e più coraggio nel creare esperienze inclusive, non solo “compatibili”.
Hai già idee o progetti futuri per dare seguito al percorso iniziato con The handYcapped?
Sì, un sacco. Il videogioco è solo l’inizio. Stiamo completando la versione demo con la speranza di trovare sponsor o partner che ci aiutino a sviluppare la versione completa.
Vogliamo continuare con eventi, collaborazioni e una serie di progetti educativi, come nuovi libri, che parlino di inclusione in modo creativo attraverso arte, scuola, e anche un po’ di sana ironia.
L’obiettivo resta sempre lo stesso: far capire che la disabilità non è un limite, ma un punto di vista diverso sul mondo.
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